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Per i biodeterministi
noi non siamo liberi perchè le nostre vite sono fortemente determinate
da un piccolo numero di cause interne, tra cui i geni, per specifici comportamenti
o per la predisposizione a tali comportamenti. Ma con ciò si perde,
in definitiva, la differenza tra la biologia umana e quella degli altri
organismi.
I nostri cervelli, le nostre mani e le nostre lingue ci hanno reso indipendenti
dalle singole caratteristiche fondamentali del mondo esterno.
La nostra biologia ci ha trasformati in creature che ricreano costantemente
i propri ambienti psichici e materiali, e le cui vite sono il risultato di
una straordinaria molteplicità di vie causali che si intersecano. E'
quindi la specificità della nostra biologia a renderci liberi e, di
conseguenza, eticamente responsabili.
Come ci ricorda l'antropologo e epistemologo Gregory Bateson la nostra mente
possiede, e costantemente rigenera, una sua ecologia.
Si disegna così gradualmente meglio quella rete di sottili interazioni
tra l'ambiente psicobiologico interno dell'uomo e l'ecosistema complessivo
esterno in cui la nostra specie si colloca.
Questa intercorrelazione è ben descritta dal filosofo e scienziato
Fritjof Capra in un suo recentissimo volume di ampia sintesi che si intitola
appunto The Web of Lífe, La rete della vita (ottobre 1996). Capra in
esso ripercorre storicamente l'emergere, in tempi molto recenti, di un nuovo
linguaggio scientifico che si va progressivamente sviluppando per poter descrivere
la complessità di tutti i sistemi viventi ossia degli organismi, dei
sistemi sociali e degli ecosistemi.
Storicamente la complessità della natura è stata analizzata
nella filosofìa e scienza occidentale da due differenti e spesso antagonisti
punti di vista. Sostiene Capra, semplificando, che i filosofi greci tendevano
a distinguere questi due approcci come lo studio della sostanza e lo studio
della forma.
Con il termine sostanza essi intendevano ciò che noi oggi indicheremo
come materia, struttura o guantità. Il termine forma stava a contrassegnare
ciò che noi oggi classificheremo come pattern, ordine o meglio ancora
qualità. Due visioni epistemologiche che sono state costantemente in
competizione rispondendo a due differenti domande. La domanda che si pone
chi studia la sostanza è: di cosa è fatto qualcosa, quali sono
i suoi costituenti? L'approccio di chi studia la forma risponde al quesito:
quale è il suo pattern, il modello, il disegno complessivo?
Questo tipo di domande ha avuto una lunga eclisse nella storia della scienza
moderna finchè in questo secolo sono necessariamente riemerse negli
anni '20. I ricercatori infatti che si occupavano di teoria dei sistemi riconobbero
che per comprendere i sistemi viventi lo studio della forma era essenziale.
Tre furono i settori dove quasi simultaneamente questo tipo di pensiero si
sviluppò: la biologia organicista, la psicologia della Gestalt e l'ecologia.
Tutti campi in cui gli scienziati erano costretti a studiare i sistemi viventi
come insiemi integrati che non potevano essere ridotti, senza perdere significato,
a sottosistemi più piccoli. I sistemi viventi in quest'accezione includono
gli individui singoli, parte di organismi.
La teoria dei sistemi, elaborata negli anni '40 da Ludwig von Bertalanffy,
è quindi di necessità un approccio interdisciplinare o ancora
meglio tranedisciplinare. Nel suo approcio olistico il biologo austriaco introdusse
il concetto di sistema aperto come tipico del mondo biologico. Questo tipo
di sistema deve essere di continuo alimentato da un flusso di energia e materia
provenienti dall'ambiente circostante. Questi sistemi aperti si automantengono
in uno stato bilanciato lontano dall'equilibrio. Bertanlaffy lo definì
Fliesspleihgewich, bilanciamento volante. Sono sistemi impossibili da definire
nei termini della termodinamica classica ed egli postulò una nuova
termodinamica che li descrivesse. Le relazioni al contrario non hanno dimensioni
che non siano puramente simboliche, certamente non hanno peso fisico. Le relazioni
però possono essere mappate. Quando ciò accade scopriamo che
emergono certe configurazioni che si verificano ricorrentemente. I patterns
sono dunque configurazioni di relazioni che appaiono di continuo e lo studio
delle relazioni conduce quindi allo studio dei patterns. Questa transizione
metodologica ci porta nella direzione di un nuovo modo di pensare la biologia
che ormai si va ben delineando e si propone di analizzare gli ecosistemi da
una prospettiva originale. Questa biologia dovrà in un certo senso
dunque riappropriarsi di certi aspetti olistici del pensiero scientifico rinascimentale
dove arte e scienza, materia e forma, si mescolavano di continuo nelle intuizioni
pratiche e nelle vite dei protagonisti d'allora. L'embriologo Brian Goodwin
nel suo recente libro The ~volution of Complexity, L'evoluzione della complessità,
argomenta che la biologia dovrà, per adempiere adeguatamente ai suoi
compiti, essere sempre di più una scienza delle qualità e non
solo delle quantità. Questo modo di pensare sempre più condiviso
dai biologi evoluzionistici e dai teorici della vita artificiale che si raggruppano
attorno alla memoria del pensiero del genetista inglese D.H.Waddinton trova
riscontro e consenso negli studiosi di altre discipline che afferiscono alla
corrente ormai ben delineata del pensiero della complessità. I1 Santa
Fe Institute nel New Mexico è uno dei centri di questa rete che raccoglie
e smista le idee che si sviluppano nel network ideale del pensiero dell'ecocomplessità,
una scienza che ama definirsi appunto come una scienza delle qualità.
In biologia possiamo tranquillamente affermare che ogn; fenomeno vitale è
dunq~e un fenomeno non-lineare e di conseguenza tra i biologi è nato
un generale interesse verso tutte le teorie che cercano di analizzare fenomeni
non lineari. Per descrivere un fenomeno come non lineare sono state identificate
quattro caratteristiche comuni. Tutti questi fenomeni sono sistemi aperti,
lontani dall'equilibrio; descrivono l'emergenza spontanea di nuove strutture
e nuove forme di comportamento - fenomeno questo che viene classificato come
autoorganizzazione o autopoiesis nella definizione data da Maturana e Varela;
implicano retroazioni interne o meccanismi autocorrettivi; vengono formulati
in termini di equazioni non lineari. Lentamente in questa fine secolo sembra
dunque emergere un nuovo pensiero che unifica le varie discipline che si richiamano
tutte, attraverso diverse vie, alla ecocomplessità. Si aprono nuovi
affascinanti orizzonti speculativi ed applicativi. Ma non vorrei che questa
mia visione di prospettiva fosse troppo ottimista. L'approccio riduzionista
ancora domina ad esempio le biologie. Il paradigma forte della biologia molecolare
affascina ricercatori e studenti. Le biotecnologie continuano a promettere
una palingenesi più ampia di quanto forse potranno mai ottenere nel
fornire contributi concreti alla soluzione dei problemi della vita. L'evoluzionista
e filosofo della scienza Richard Lewontin ci ricorda che da Darwin a oggi
si è passati dal determinismo ambientale al riduzionismo genetico sulla
base della medesima separazione tra individuo e ambiente, tra interno ed esterno.
Una separazione alla quale Lewontin oppone la sua concezione interattiva per
cui gli organismi producono il loro ambiente ed i geni, in questo contesto,
sono solo alcuni degli elementi che costituiscono l'individualità biologica
di un organismo. Nel suo libro Biologia come ideologia: la dottrina del DNA
Lewontin rivaluta i fattori culturali e politici propri della vita sociale
umana contrastando così anche il mito ambientalista di un ambiente
esterno da salvare senza mettere in discussione gli assetti sociali che l'hanno
compromesso. Queste affermazioni fanno suonare molti campanelli d'allarme
ed è quindi con interesse che mi accingo a voler capire come vengono
pensate e pianificate le politiche agroalimentari nella prospettiva dell'ecocomplessità,
Apprendo dalla stampa scientifica, ad esempio,che l'Istituto Vavilov a San
Pietroburgo, la straordinaria cassaforte di 330.000 varietà di piante
appartenenti a 2500 specie alimentari che sono o possono essere utili all'alimentazione
dell'uomo sta per chiudere travolto da una crisi finanziaria e strutturale.
L'Istituto porta dal '56 il nome del suo prestigioso fondatore che da lì
fu cacciato da Lysenko, assieme ad alcuni suoi collaboratori, alla fine degli
anni '30. Vavilov finì in carcere e lì nel '43 morì.
Con la chiusura del Vavilov sparirebbe una fonte di inestimabile valore di
variabilità genetica per l'intera uman~tà, ma poco sembra si
stia facendo internazionalmente per salvarlo. La selezione genetica in agricoltura
appare a~molti e sempre di più come un'arma a doppio taglio poichè
se da un lato permette di aumentare la produzione e sfamare sempre più
individui, dall~altro i~riduce la variabilità genetica essenziale alle
reti della vita. Si altera quella complessità globale che costituisce
proprio l'essenza di quei meccanismi interattivi che permettono a molte specie
di continuare a esistere su questo pianeta. Ad esempio, l'Istituto Vavilov,
solo di avena conserva ben 14000 specie ed è da una di queste specie
particolarmente resistente alla siccità, conservata appunto in attesa
di una necessità improvvisa, che è arrivata la salvezza per
l'Eritrea quando sette anni fa era stata colpita dalla siccità.
La FAO recentemente comunica che nel mondo esistono circa mezzo milione di
specie di cui solo la metà identificate. Di queste trentamila sono
commestibili, ma in pratica soltanto 30 sfamano l'umanità. Grano e
mais assicurano metà del cibo consumato dalla popolazione del nostro
pianeta. L'uniformità di specie costituisce un rischio enorme. L'agricoltura
moderna utilizza troppo poche specie ed in modo troppo intensivo. I risultati
ottenuti con il miglioramento genetico sono stati eccellenti, ma ciò
non sarà sufficiente nel 2025, quando ci si attende una popolazione
di otto miliardi di persone, a sfamarle se non si sarà mantenuto anche
un alto livello di variabilità genetica. Sono infatti proprio i sistemi
antropici cioè creati dall'uomo quelli che ora presentano i valori
più bassi di diversità biologica. Esemplare è il caso
del riso di cui delle circa diecimila varietà presenti nel 1949 nel
1970 non ne rimanevano più di mille. Attualmente vengono prodotte 552
milioni di tonnellate di riso che viene coltivato su di un'area di 150 milioni
di ettari ma tutto il materiale genetico deriva da due sole specie di riso.
Si proclama che l'ingegneria genetica in agricoltura sarà il mezzo
per liberare le nuove varietà vegetali dai prodotti chimici e renderle
ecologicamente sicure, ma tutto ciò sembra essere in palese contraddizione
con i principi elementari dell'ecocomplessità. Il contrasto tra questi
due differenti approcci ossia la mentalità della monocultura e quella
della diversità dell'ecosistema è ben descritto da Vandana Shiva
nel suo libro Monoculture della Mente: Biodiversità, biotecnologia
e agrícoltura "scientifica".
L'autrice sostiene che la mentalità della monocultura nasce dalla scienza
riduzionista delle quantità che guarda alle specie in termini di tratti
specifici che possono essere massimizzati per dare produzioni più alte
di un certo prodotto. Ci si chiede dunque, con crescente ansia, quanto le
nuove visioni dell'ecocomplessità abbiano realmente influenzato chi
si occupa di produzione agroalimentare. L'uso tradizionale dei prodotti naturali
è infatti un uso che integra una varietà di prodotti in un insieme
bilanciato e sostenibile che è intrinsecamente robusto a causa delle
molte componenti che interagiscono, un sistema ricco di qualità biologica.
Parametri economici e parametri biolgici possono non necessariamente armonizzarsi
in una sintesi felice.
Ci ricorda Immanuel Kant che gli organismi sono agenti intenzionali impegnati
ad esprimere la loro natura che ha una perfezione qualitativa che non richiede
nessun completamento esterno. Il riconoscere e l'apprezzare le specie animali
e vegetali come forme di vita che emergono da un processo dinamico, collocato
sulla soglia fragile di processi di caos, ci deve far considerare il nostro
rapporto con esse come una delicata e intricata rete di interdipendenze, di
ecocomplessità, interne pure alla mente umana, che consentono la vita
della nostra specie sulla Terra.
Bruno D'Udine
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