symposium on love by guggenheim public

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Come uno degli ultimi arrivati a questo simposio, sono stato invitato principalmente per la mia collaborazione con David Bohm ed il mio coinvolgimento nella forma di dialogo che ha sviluppato durante gli ultimi sedici anni .
Nel suo contributo, David Peat ha fornito una buona descrizione di ciò che questa forma comporta, quindi non starò qui a la ripeterla. Ciò che voglio enfatizzare invece è come il progetto di dialogo si sia sviluppato dalla visione di Bohm secondo la quale l'universo- e non solo a livello microscopico di fisica dei quanti- può essere descritto più produttivamente come "intatta interezza in movimento scorrevole."

Ora, si può notare come io abbia asserito che l'universo "può essere descritto più produttivamente come...". Ho scelto questa definizione in particolare perché l'approccio alla conoscenza che Bohm ha intrapreso, e che io intraprendo, consiste nel dire che ogni teoria deve essere trattata semplicemente come un punto di vista. Infatti, l'intera questione di che cos'è una teoria é rimasta insoluta molto a lungo. La parola "teoria" deriva dalla stessa radice della parola "teatro" che significa, più o meno, un modo di vedere, o un contesto nel quale possiamo vedere qualcosa che altrimenti non saremmo in grado di vedere al di fuori di quel contesto. L'idea di Bohm era che qualunque punto di vista individuale potesse rivelarsi utile, fruttuoso o nessuna di queste due cose- ma sempre all'interno di un contesto individuale. I problemi nascono nel momento in cui assumiamo le nostre teorie- e ancora non voglio limitarmi alle teorie scientifiche- come verità , verità assoluta, o tutto fuorché come verità. Verità, nel modo in cui di solito si pensa a questo termine, non è una funzione primaria del teatro. E non si dovrebbe neanche applicarla alle nostre teorie - e certamente non alle nostre opinioni che spesso siamo portati a considerare come teorie personali che infine sono affermazioni di verità. Una performance teatrale può rivelare alcune 'verità', può alterare la maniera in cui sperimentiamo noi stessi e gli altri, ma non siamo solitamente spettatori con lo scopo di prendere parte alla verità dello sceneggiatore.

Vorrei anche suggerire quì che estendiamo quest'idea dei modi di vedere a tutto il nostro sistema di percezione- accantonando per il momento le nostre nozioni di verità e falsità. Ciò significa che voglio, per il gusto di aprire le porte a una successiva esplorazione, estenderlo a tutto ciò che attira la nostra attenzione, tutto ciò che pensiamo o sentiamo, capiamo, interpretiamo o troviamo significante. In altre parole, per tutti quelli che la pensano come noi, sia per credo che convinzioni. Suppongo che tutti debbano essere trattati come modi di vedere che possono o non possono essere utili in un particolare contesto. In altre parole possono permetterci di vedere ciò che non saremmo in grado di vedere senza una particolare struttura teoretica. Abbiamo bisogno delle nostre teorie, non saremmo in grado di pensare senza di esse e la comunicazione diverrebbe virtualmente impossibile. Ogni categoria di pensiero è, in effetti, una teoria. Una serie di somiglianze che costituiscono un continuum logico. L'arte è una teoria, cioè un modo di vedere- anzi, molti modi di vedere; i cani in quanto categoria sono un modo di vedere, eseguiamo l'operazione di raggruppiamo diverse, dissimili creature, piccole, grandi, a pelo lungo, a pelo corto e così via. Ma se dobbiamo estenderli al di là del contesto dove li utilizziamo, abbiamo bisogno di pensare molto prima di difenderle. Tutte le nostre migliori idee devono quindi essere temporanee. E in ogni caso quest'ultima considerazione deve essere inclusa nel contesto totale. Questa frammentazione e l'endemica incoerenza che nutre sono il risultato delle necessità che sono emerse, si sono sviluppate e si sono instaurate nella cultura europea e più che mai in quella orientale, durante la storia. Questo emerge dal contesto di significazione generale in cui siamo ormai saturi della cultura e della sottoculture che ci hanno educati. E ciò quindi forma il contenuto delle nostre memorie ed é questo contenuto che definisce le nostre tacite convinzioni e considerazioni. Le nostre lingue, le nostre strutture socioeconomiche e le nostre istituzioni religiose fanno tutte parte di una serie di significati condivisi che costituiscono quella cultura. Se siamo qualcosa siamo il significato che portiamo con noi. Questo processo del pensiero umano, col quale mi riferisco alla totalità del complesso pensiero-sentimento che riempie la nostra consapevolezza e dirige le nostre attività, è un processo materiale che opera in gran parte al di fuori del nostro controllo cosciente. Funziona in gran parte in maniera automatica. Elaboriamo- cioè, diamo particolari significati, valori e importanza a - ciò che colpisce i nostri sensi. Ciò succede molto velocemente in maniera piuttosto simile a un programma del computer. E raramente pensiamo di chiederci: Da dove vengono questi significati? Invece, accettiamo semplicemente ciò che i nostri sensi sembrano dirci su di noi e sul mondo come la realtà fattuale e agiamo di conseguenza oppure, se siamo più riflessivi, forse riusciamo a ricavare delle interferenze da queste percezioni. Il più delle volte, questo meccanismo funziona bene. Ma ciò che mi preoccupa é quando non funziona il che accade molto più spesso di quanto pensiamo.

E ancora, quanto spesso ci chiediamo da dove vengano queste interferenze? Solo quando ci troviamo a fronteggiare situazioni più complesse o astratte, dove siamo chiamati a portare un diverso tipo di attenzione all'argomento in questione- argomenti in cui la nostra riserva di memoria diventa evidentemente inadeguata - questa meccanismo appare meno chiaro. Possiamo dire che in determinate circostanze dobbiamo pensare piuttosto che dipendere dal 'pensato'- che è il participio passato del verbo 'pensare'. Dobbiamo anche considerare i nostri sentimenti piuttosto che i 'sentiti', un termine che Bohm ha coniato per denotare sentimenti che abbiamo tirato fuori dalla nostra riserva di memoria e che sono associati ad eventi passati i quali possono o meno essere rilevanti nella situazione presente. E poiché pensare comporta una perdita di tempo raramente ricordiamo che pensare é memoria al lavoro più che attualità del momento. Pensare ci richiama a sottolineare questa cosa e a ricercare le nostre congetture e preconcetti. Ma raramente riusciamo a catturare questi momenti o se lo facciamo avviene solitamente dopo il fatto. E' qui che la maggior parte delle volte regna la confusione e dove spesso cominciano i problemi.

Allora come testiamo le nostre congetture e convinzioni all'interno di una cultura nella quale l'importanza del possesso intellettuale, del riconoscimento personale o, dell'indiscutibile santità dei nostri sentimenti individuali riguardo a questa o quella cosa sono così profondamente radicati? Una via possibile può essere il prendere seriamente in considerazione la possibilità che ci siano molte diverse prospettive su una questione particolare, tanto che l'esperienza di un'altra persona o persino il luogo in cui sta nella stanza gli permette di vedere qualcosa che io non posso vedere. La mia opinione, non ha alla fine più o meno peso che quella di 'un membro del pubblico'. Dal momento che sono preparato a sospendere un giudizio ho l'occasione di guadagnare uno sguardo più profondo riguardo all'argomento in questione qualunque esso sia, ma più significativamente, apro le porte alla possibilità che nuovi sguardi possano essere in arrivo in un contesto dove l'amore o koinonia o qualunque sia il nome che vogliamo dargli, sia l'attualità. Certamente, per quanto semplice possa sembrare, l'esperienza ha dimostrato che é difficilmente realizzabile. Ciò nondimeno, sono convinto che valga la pena di provare.

Don Factor

      
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I am a late-comer to this symposium. I was invited mainly because of my association with David Bohm and my involvement over the past 16 years in the form of dialogue that he developed. David Peat in his contribution has given a good description of what that form involves so I won't repeat it here. What I do want to emphasise is that the dialogue project grew out of Bohm's view that the universe -- not only at the microscopic level of quantum physics -- could be described most fruitfully as "unbroken wholeness in flowing movement."

Now, you may notice that I have predicated this quotation with the idea that the universe "could be described most fruitfully as...". I have put it this way because the approach to knowledge that Bohm took, and that I take, was that any theory ought to be treated, simply as a way of seeing. Actually, the whole question of what a theory is has remained unsettled for a very long time. The word "theory" derives from the same root as "theatre" which means, more or less, a way of seeing, or a context in which we can see something that we might not be able to see outside of that context. Bohm's idea was that any particular way of seeing might prove useful, fruitful, or neither - but always within a particular context. We get into trouble when we take our theories - and again I don't want to limit this to scientific theories - as the truth, the whole truth, or nothing but the truth. Truth, in the way we usually think of that term, is not a primary function of theatre. Nor should it be applied to our theories - and certainly not to our opinions, which we often tend to treat as personal theories, that is truth statements. A theatrical performance may reveal certain 'truths', it may alter the way we experience ourselves and others, but we do not ordinarily attend in order to partake of the playwright's truth.

I would like also to suggest here that we extend this idea of ways of seeing to the totality of our perception - setting aside, for the moment, our notions of truth and falsity. That is, I want, for the sake of opening the door to further exploration, to extend it to everything that gets our attention, everything that we think about or feel, understand, interpret, or find meaningful. In other words, to all of our opinions, beliefs and convictions.
All of these, I suggest, ought to be treated as ways of seeing that may or may not be useful within a particular context. In other words they may let us see something that we could not have seen without a particular theoretical framework. We need our theories; we would not be able to think without them and certainly communication would become virtually impossible. Every category of thought is, in effect, a theory. A set of similarities that constitute a logical continuum. Art is a theory, that is, it is a way of seeing - actually, many ways of seeing; dogs are a way of seeing, we group various, dissimilar creatures, small, large, hairy, hairless, together under the category dog, and so on. But if we are to extend them beyond the context where they serve us well, we need to think hard before we defend them. All our best ideas ought, thus, always to be provisional. And, by the way, this last comment ought also to be included in that enjoinder.

I am not suggesting any form of relativism here, where anything goes. Rather I am proffering an invitation to explore in a field where nothing is so sacred that it cannot be queried. This is the domain of what I call dialogue - not the strictly Bohmian version where a group of people sit in a circle and talk together but something more general. If we are to have any success in moving toward a world that is more coherent than the one in which we now live, where we no longer stumble from one crisis to another through whatever field we inhabit, where creativity is so rare as to be regarded as extraordinary, then we need to find a way to open ourselves to as wide a range of possibilities as we can and this, I suggest, privileges our 'a priori' relatedness as parts of a whole, rather than as private individuals who insist upon giving supreme significance to their autonomy and their own point of view. This is a way that I believe can lead in the direction of greater creativity and, dare I say, directly into a recognition of the public sphere which is the place where can discover that pool of common meaning that some call love.

In fact it seems to me that this public sphere is where each of us lives whether we notice it or not. If we do notice, then we can see it as a domain in which the word 'love' seems to fit nicely, where whatever we take to be private is what we have to offer into the larger pool. If we cling to the private there can be no love because love requires an other who is more than an other. I use the word dialogue as a kind of shorthand for participation in the public space. The Russian theorist Mikhail Bakhtin argued that any utterance is an invitation for some sort of response. And he took this even further. He wrote: "To be means to communicate dialogically. When dialogue ends, everything ends. Thus dialogue, by its very essence, cannot and must not, come to an end." For Bakhtin, Bohm and also Martin Buber who spoke of the importance of the "I - Thou" relationship rather than the more usual "I - It" relationship the dialogue was central not only to our continued existence as social beings but to the universe as a whole. We are talking metaphysics here, but if so, then that too may be worthy of our further inquiry - perhaps. Rather than use the word love which is so heavily weighted with connotations, Bohm chose to use the Greek word KOINONIA which means impersonal fellowship, to make a distinction between our usual sense of the word love, which in English is used to denote an intense attachment to a particular other, and this sense of unbroken wholeness involving a revelation of implicit shared values, intentions and significance amongst a group of people engaged in dialogue. Regardless of the word used it seems to me that this public space is where we all dwell. There is no public 'out there'. There is only the public. The artist, the administrator, the playwright are as much a member of the public and is the spectator or consumer.

Having said all this, I have to admit that actually living this way - keeping it in mind, living dialogically, keeping the dialogue going - is extremely difficult. But I have come to believe that this difficulty is an inevitable product of a human thought process that has been conditioned to taking fragmentation - in other words, separateness - as fundamental, in a world that I am proposing can be more fruitfully described by an image of unbroken wholeness.

This fragmentation and the endemic incoherence that it breeds is the result of necessities that have emerged, developed and become embedded in European and most likely in Oriental culture over most of recorded history. It arises from the general field of meaning in which we have become saturated as a result of the culture and the sub-cultures in which we were nurtured. It thus forms the content of our memories and it is this content that define our tacit beliefs and assumptions. Our languages, our socio-economic structures and our religious institutions are all part and parcel of a set of shared meanings that constitute that culture. If anything we are the meanings that we carry with us.
This human thought process, by which I mean the whole of the thought-feeling complex that fills our awareness and directs our activities, is a material process that operates in large part outside of our conscious control. It functions to a great extent automatically. We organize - that is, we give particular meanings, values and significances to - that which impinges on our senses. This happens very quickly rather like a computer programme. And seldom do we think to ask: Where do these meanings come from? Instead, we simply take what our senses appear to tell us about ourselves and the world as being the actual fact of the matter and we act accordingly or, if we are more reflective, perhaps we draw some inferences from these perceptions. More often than not, this system serves us well. But I am concerned with when it does not which may be more often than we suspect.

Again, how often do we inquire as to where these inferences come from? Only when we are confronted with more complex or abstract situations where we are called upon to give a different kind of attention to the matter at hand - matters where our store of memory becomes evidently inadequate - this usefulness appears less clear. We might say that in such circumstances we have to think rather than depend on 'thought' - which is the past participle of the verb 'to think'. We also have to look to our feelings rather than 'felts', a term that Bohm coined to denote feelings that have also unfolded from our store of memory and are associated with past events that may or may not be relevant to the present situation. And because thinking takes time we seldom notice that it is memory at work rather than the actuality of the moment. Thinking calls on us to notice this and to query our assumptions and preconceptions. But we seldom succeed in capturing these moments or if we do it is usually after the fact. It is in this domain that confusion most often reigns and where trouble most often begins.

So how do we test our assumptions and convictions in the midst of a culture in which the importance of intellectual ownership, personal recognition or, the unquestionable sanctity of our individual feelings about this or that is so deeply embedded? One possible way might be to take seriously the possibility that there are many different perspectives on a particular question, that another person's life experience or even the place in the room where they are standing allows them to see something that I cannot. My opinion, ultimately carries no more no less weight than 'a member of the public'. So long as I am prepared to suspend judgement I stand a chance of gaining deeper insight into the subject at hand whatever it might be, but more significantly, I open the door to the possibility that new insights may be forthcoming in a pool where love or koinonia or whatever else we want to call it, is the actuality. Of course, as simple as this may sound, experience has shown that it is far from easy. Nevertheless, I am convinced that it is worth trying.


Don Factor