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Vivere la "Cultura
della separatezza"
Il punto di vista sul mondo, o paradigma, è una serie di credo sul
mondo. Questi credo sono potenti perché influenzano il nostro modo
di pensare, gli obiettivi che perseguiamo, e ciò a cui diamo valore.
Il modo di vedere il mondo della nostra società è orientato
verso la produzione maniaca e consumo, il flusso massimo di energia e lo spreco
irrazionale, e la maggior parte delle istituzioni della nostra società,
compreso il mondo artistico, echeggia questi valori, che oggi minacciano la
salute degli individui, la società, e l'ecosistema in cui viviamo.
Come possiamo spezzare questo trance culturale, questo modo disfunzionale
di vedere il mondo, così che possa essere costruita una relazione più
coerente tra la civiltà umana e il mondo naturale?
Per quegli artisti che stanno tentando di cambiare i paradigmi, il primo passo
sta nel divenire consapevoli di quanto abbiano interiorizzato tali valori
e i dettami del vecchio paradigma, basati su professionalismo competitivo
e guidato da potere, combinato con la filosofia dell'arte per l'arte che ha
liberato l'arte da qualsiasi ruolo sociale. Per molti artisti ciò significa
niente di meno che una completa riconsiderazione del significato e della funzione
dell'arte. Il centro interiore e lo spazio di isolamento dello studio sono
oggi sottoposti a sfida da un più ampio contesto della vita politica,
sociale e ambientale. Anziché seguire gli ideali dell'individualismo,
della libertà estetica, dell'espressione del proprio io, questi artisti
si pensano come creatori di paradigmi le cui idee e attività possono
in pratica plasmare la stessa cultura. Essi non sottoscrivono più il
credo per cui i problemi dell'arte sono puramente estetici o che l'arte non
ha il potere per cambiare il mondo, uno stato delle cose a cui Arthur C. Danto
si riferisce come "la privazione dell'arte", l'ideologia che ha
paralizzato il potenziale sociale dell'arte restringendo l'ambito della sua
visione. Sviluppare una visione più ampia significherà evocare
nuove immagini di ciò che significa essere artista, e demolire molte
delle nostre acclamate nozioni: vendite attive, gallerie ben sponsorizzate,
buone critiche, e un'audience vasta e ammirante.
Il nostro prevalente paradigma di egoistico individualismo radicale ha creato
un ordine sociale in cui l'io viene vissuto come privato e separato dagli
altri e dal mondo, e in cui la dimensione essenziale dell'arte comune è
stata negata. Forme partecipative di consapevolezza sfidano il vecchio quadro
cartesiano e ci pongono queste domande: Può l'arte costruire una comunità?
Possono gli artisti e le istituzioni ridefinirsi in modi che siano orientati
meno verso l'io e più verso l'altro, o gli altri? All'interno dell'estetica
modernista, come ha sottolineato Arthur Danto, tutta l'arte "è
al di fuori della vita, in uno spazio proprio, rappresentato metaforicamente
in un contenitore espositivo in plexiglas, galleria bianca e spoglia, la struttura
di alluminio. Quando si ricerca una connessione più profonda tra la
vita e l'arte, il modernismo è finito". L'estetica connettiva
implica coinvolgimento e partecipazione, nemici dell'estetica distante e non
partecipativa del modernismo.
La comunità è integrativa; ricerca la diversità, accoglie
altri punti di vista, e crea un flusso di significati che scorre tra di noi
attraverso l'ascolto empatico. Un esempio di ciò di cui parlo potrebbe
essere il film Prisoners, girato da Jonathan Borofsky e dal suo collaboratore,
Gary Glassnan. Nel 1985-86 questi due si recarono in tre diverse prigioni
della California per intervistare i prigionieri. Non vi si recarono come giornalisti
con l'intenzione di osservare e descrivere le condizioni delle prigioni; vi
si recarono per un senso di compassione verso la condizione dei prigionieri
e perché volevano comprendere per se stessi cosa significa essere prigioniero
in questa società, ovvero perdere la propria libertà e vivere
la propria vita rinchiuso in un contenitore di cemento.
Borofsky e Glassman invitarono i prigionieri a raccontare la loro vita e a
dire che cosa era andato storto. Nel film, alcuni prigionieri si scambiano
le poesie e le opere d'arte che avevano creato. Essi descrivono il senso di
oppressione della vita all'interno della prigione, dove la gente non parla
mai spontaneamente di sé perché nessuno vi è interessato.
La sensazione di essere ascoltati, di essere sentiti, crea un senso di potenza.
L'arte che si basa "sull'ascolto dell'io" non può realizzarsi
totalmente mediante le modalità del monologo, o dell'auto-espressione.
Si realizza attraverso il dialogo in cui è presente il parlare e l'ascoltare
altre voci. Borofsky ha descritto anche il legame d'amore che si venne a creare
tra lui stesso e i prigionieri, il legame della connessione. Questo orientamento
all'ascolto è sinergetico, e si estende al di là della propria
capacità come entità separata. Rivendica un approccio radicalmente
diverso al fare arte e richiede una serie diversa di abilità. Spesso,
nell'estetica connettiva, la relazione È l'opera d'arte. La scomoda,
autocratica personalità del moderno artista-eroe non è più
il punto. L'ascolto empatico crea lo spazio per l'altro e decentralizza l'ego-io.
Dare voce a ciascuna persona costruisce la comunità e crea un'arte
socialmente rispondente. Non si tratta di attivismo: è più come
l'amore, un modo empatico di vedere attraverso gli occhi di un altro. L'artista
diventa come un "antropologo soggettivo", come ha scritto la performance
artist Suzanne Lacy: L'artista entra nel territorio dell'altro, e diviene
un mezzo per il suo vissuto. L'opera d'arte diventa una metafora di una relazione
che ha un potere di riconciliazione. E pone qualcosa di nuovo e più
vicino all'amore, al centro del valore dell'arte. Una cosa è chiara.
Nell'attrarre gli altri nel processo, le pratiche dialogiche sfidano la nozione,
secondo il poeta Gary Snyder, per cui "solo poche persone hanno 'talento'
e diventano artisti e vivono a San Francisco lavorando all'opera o al balletto,
mentre tutti gli altri dovrebbero accontentarsi di guardare la televisione".
Le nostre pratiche di fine art socialmente chiuse in trincea hanno impersonato
elitismo che ha separato l'arte dalla gente comune e dalle loro esperienze.
All'interno del paradigma del "profondo ascolto" partecipativo,
"l'arte diventa un atto co-creativo, un "indicatore metodologico"
per la correttezza, un incontro anziché un oggetto di consumo primariamente
passivo. L'arte che ha radici "nell'ascolto del sé" anziché
nell'occhio incorporeo, sfida il pensiero di separatezza della nostra cultura
poiché si concentra non sugli individui in quanto tali, ma sul modo
in cui gli individui interagiscono. Credo che ora esista un vero desiderio
per quel senso di intimità e comunità e l'essere in relazione,
perso dall'attenzione individualistica isolata del modernismo. L'io/l'ego
solitario, racchiuso in sé, autosufficiente, che ha costruito la sua
identità nell'isolamento non si dà all'ascolto illuminato. Un
ascolto orientato verso l'acquisizione di una condivisa comprensione e verso
l'essenziale intreccio del proprio io con l'altro, del proprio io con la società.
L'arte pubblica, in questo senso, inizia con l'individuo che accoglie l'altro,
ricerca un legame più profondo, un collegamento più ampio, man
mano che la nozione dell'individuo isolato cede il passo alla differente nozione
dell'io come fenomeno, non isolato né racchiuso in sé, ma sociale
e interattivo.
Alcune note: Parole chiave/concetti associati con il nuovo sociale, scientifico,
e cosmologico paradigma: partecipatorio, interdipendente, intercomunicativo,
interattivo, interconnetivo. In questo paradigma non siamo spettatori, siamo
tutti partecipanti, tutti responsabili. La consapevolezza partecipatoria è
molto diversa dall'isolamento strutturale dell'individualismo. Indica la necessità
di altri tipi di intelligenza e abilità sul modo in cui ci relazioniamo
con l'umanità e la biosfera nel suo insieme. Nel punto di vista post-cartesiano
e ecocentrico che va emergendo, l'io non viene più compreso come isolato
e racchiuso in sé, ma è relazionale e interdipendente.
Durante l'era moderna, gli obiettivi e i meriti dell'arte venivano definiti
quasi interamente in termini individualistici. L'arte era vista come una collezione
di oggetti autonomi, soprattutto statici, presenti nei musei e nelle gallerie,
separate dalla vita comune e dall'agire.
Nel mio scritto ho cercato di definire le implicazioni del nuovo paradigma
processuale per le forme e i metodi d'arte, affermando che una concezione
più legata al campo dell'io, che comprende che non siamo autonomi ma
immersi nei più ampi sistemi della società e dell'ambiente,
è più in linea con le nuove filosofie di profonda ecologia e
teoria dei sistemi. Ho indagato il lavoro di artisti che non sono fissati
a fare oggetti ma al contrario hanno esplorato il difficile margine della
transizione nel nuovo paradigma partecipativo orientato verso il processo.
Il termine da me creato per questo tipo di arte più relazionale, da
esperienza, interattiva, e popolarista è "estetica connettiva".
L'estetica connettiva indica radicali differenze nel modo in cui gli artisti
considerano la propria arte. Le funzioni dell'arte come un sistema aperto
(anziché chiuso), che risponde e interagisce con l'ambiente. All'interno
del moderno paradigma, l'arte non aveva scopi sociali, ma era considerata
come valevole in sé e per sé. L'isolamento del genio solitario
è stato un modello filosofico per il modernismo occidentale, ma al
costo di privare l'arte del suo stupefacente potenziale di costruzione della
comunità attraverso l'empatica interazione sociale.
Man mano che dissolviamo il condizionamento culturale della modernità
e il paradigma del materialismo, noi ci trasformiamo anche in un modo spiritualmente
informato di guardare al cosmo. E con le nozioni di partecipazione, collaborazione,
e dialogo interattivo, ci allontaniamo dalla nostra visione (centroculare)
orientata verso la comprensione dell'arte-oggetto. I modelli che sono più
partecipativi, interattivi, e relazionali vengono ora sviluppati. L'estetica
connettiva implica il senso che la autorealizzazione del proprio sé
sia intimamente legata con l'autorealizzazione degli altri. Incoraggia il
punto di vista per cui l'arte può incarnare una visione della società.;
può diventare socialmente e spiritualmente impegnata, ed essere una
forza incisiva per il cambiamento e la riconciliazione.
Suzi Gablik
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Leaving the "Culture
of Separation"
A world view, or paradigm, is a set of cultural beliefs about the world.
These beliefs are poweful in a society since they influence the way we think,
what goals we pursue, and what we value. Our society' s view of the world
is oriented towards manic production and consumption, maximum energy flow
and mindless waste, and most institutions in our society, including the art
world, echo these values-to a point which is now threatening the health of
individuals, society, and the ecosystem in which we live. How might we break
through this cultural trance, this dysfunctional world view, so that a more
coherent relationship may be constructed between human civilization and the
natural world?
For artists who are trying to change paradigms, the first step is to become
conscious of how much they have internalized the values and dictates of the
old paradigm, based on a competitiveand power-driven professionalism, combined
with an art-for-art's sake philosophy that has disenfranchised art from any
social role.
For many artists this means nothing less than a total reassessment of the
meaning and purpose of art.
The inward focus and isolation chamber of the studio are today being challenged
by the broader context of political, social, and environmental life, Rather
than following the ideals of individualism, aesthetic freedom, and self-expression,
these artists view themselves as paradigm-makers whose ideas and activities
can actually shape the culture itself. They no longer subscribe to the belief
that the problems of art are purely aesthetic or that art has no power to
change the world-a state of affairs referred to by Arthur C. Danto as "The
disenfranchisement of art," the ideology that has crippled the social
potential of art by restricting the scope of its vision. To develop a broader
vision will mean evoking new images of what it means to be an artist-and letting
many of our cherished notions break down: brisk sales, well-patronized galleries,
good reviews, and a large, admiring audience.
Our prevailing paradigm of selfhood-radical individualism-has created a social
order in which the self is experienced as private and separate from others
and from the world, and in which art's essential communal dimension has been
negated.
Participatory forms of consciousness challenge the old cartesian framework-and
bring us to this question? Can art build community? Can artists and institutions
redefine themselves in ways that are oriented less towards the self and more
toward the other, or others? Within the modernist aesthetic, as Arthur Danto
has pointed out, all art "stands outside life, in a space of its own,
metaphorically embodied in the Plexiglas display case, the bare white gallery,
the aluminum frame. When one seeks a deeper connection between art and life
than this, modernism is over."
Connective aesthetics suggests embodied participatory involvement that has
been inimical to modernism's distant and disembodied aesthetic.
Community is integrative; it seeks out diversity, welcomes other points of
view, and creates a stream of meaning that flows between us through the medium
of empathic listening. An example of what I am talking about would be the
documentary film Prisoners, made by Jonathan Borofsky and his collaborator,
Gary Glassman. In l985-86 the two men traveled to three different prisons
in California to interview prisoners.They did not go as network reporters
intending to observe and describe the conditions they found there; they went
out of compassion for the prisoners' plight and because they wanted to understand
for themselves what it means to be a prisoner in this society-to lose your
freedom and to live your life locked up in a concrete box.
Borofsky and Glassman invited prisoners to talk about their lives and about
what had gone wrong for them. In the film, some prisoners share poems they
have written and art works they have made. They describe the oppressiveness
of life inside a prison, where people never talk spontaneously about themselves
because no one is interested.
The sense of being listened to, of being heard, creates a sense of empowerment.
Art that is based in a "listening self" cannot be fully realized
through the mode of monologue, or self-expression.
It comes into its own through dialogue in which there is both speaking and
listening to other voices. Borofsky has also described the bond of love that
was created between himself and some of the prisoners, the bond of connection.
This listening orientation is synergetic, extending beyond one's capacity
as a separate entity. It calls for a radically different approach to making
art and requires a different set of skills. Often, in connective aesthetics,
the relationship is the art work.
The unwieldy,autocratic personality of the modern artist-hero is no longer
the point. Empathic listening makes room for the other and decentralizes the
ego-self. Giving each person a voice builds community and creates art that
is socially responsive. It isn't activism; it's more like love, an empathic
way of seeing through another's eyes.
The artist becomes like a "subjective anthropologist," as performance
artist Suzanne Lacy has written: "The artist enters the territory of
the other, andS¸becomes a conduit for their experience. The work becomes
a metaphor for relationship-which has a healing power. And puts something
new, and closer to love, at the center of art's value.
One thing is clear.
In drawing others into the process, dialogical practices challenge the notion,
in the words of poet Gary Snyder, that "only some people are 'talented'
and they becomer artists and live in San Francisco working in opera and ballet
and the rest of us should be satisfied with watching television."
Our socially entrenched practices of fine art have embodied an elitism that
has separated art from ordinary people and their experiences.
Within a paradigm of participatory "deep listening," art becomes
a co-creative act, a "method pointer" for connectedness, an encounter
rather than an object of primarily passive consumption. Art that is rooted
in the "listening" self, rather than in the disembodied eye, challenges
the separateness thinking of our culture because it focuses not on individuals
as such, but on the way that individuals interact.. I think there is a real
yearning now for that sense of intimacy and community and being-in-relation
that has been missing from the isolated individualistic focus of modernism.
The solitary, self-contained, self-sufficient ego which has built its identity
in isolation is not given to enlightened listening-a listening oriented toward
the achievement of shared understandings and toward the essential intertwining
of self and other, self and society. Public art, in this sense, begins with
the individual who welcomes in the other, seeking a deeper bond, a wider linkage,
as the notion of isolated individuals gives way to a different notion of the
self as a field phenomenon, not isolated and self-contained, but social and
interactive.
A few notes: Key words/concepts associated with the new social, scientific,
and cosmological paradigm: participatory; interdependent; intercommunicative;
interactive; interconnective. In this paradigm we are not spectators, we are
all participators, all responsible. Participatory consciousness is very different
from the structural isolation of individualism. It suggests the need for other
kinds of intelligence and skills in how we relate to humanity and to the biosphere
as a whole. In the post-Cartesian and ecocentric world view that is emerging,
the self is no longer understood as isolated and self-contained, but is relational
and interdependent.
During the modern era, the aims and merit of art were defined almost entirely
in individualistic terms. Art was seen as a collection of autonomous, mostly
static objects, existing in museums and galleries, segregated from ordinary
life and action.
In my own writing, I have struggled to define the implications of the new
process paradigm for the forms and methods of art, asserting that a more fieldlike
conception of the self-which understands that we are not autonomous but are
embedded in the larger systems of society and the environment-is more aligned
with the new philosophies of deep ecology and systems theory. I have investigated
the work of artists who are not fixated on making objects but instead have
explored the difficult edge of transition into the new process-oriented, participatory
paradigm. My own self-invented term for this more relational, experiential,
interactive, and popularist kind of art is "connective aesthetics."
Connective aesthetics suggests radical differences in the way artists go about
their work. Art functions as an open (rather than a closed) system, responsive
to, and interactive with, the environment.
Within the modern paradigm, art served no social purpose, but was considered
to be valuable in and for itself. The isolation of the lone genius has been
the philosophical model for Western modernism, but at the cost of depriving
art of its amazing potential to build community through empathic social interaction.
As we slowly dissolve the cultural conditioning of modernity and the paradigm
of materialism, we are also transforming into a more spiritually informed
way of looking at the cosmos. And in keeping with notions of participation,
collaboration, and interactive dialogue, we are moving away from our vision-centered
(ocularcentric) and object-oriented understanding of art. Models that are
more participatory, interactive, and relational are being developed. Connective
aesthetics involves the sense that one's own self-realization is intimately
bound up with the self-realization of others. It encourages the view that
art can embody a vision for society; it can become socially and spiritually
engaged, and be an influential force for change and healing.
Suzi Gablik
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