symposium on love by guggenheim public

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Credo che l'individuazione di un tema come quello proposto e la sua disponibilità ad essere oggetto di un simposio ponga un ordine di questioni difficilmente riducibili e risolvibili. L'ambiguità del tema risiede infatti nell'identificazione di un significato che potrebbe essere o meno condivisibile; il modo in cui esso può essere proposto, quasi come un segno privo di articolazione e determinazione, mi sembra intuitivamente, il primo dei nodi da sciogliere. Poiché ci addentreremo in un argomento come l'Amore, dovremo essere consapevoli che entreremo e usciremo mille volte nello stesso labirinto da mille diverse porte.

Facciamo allora il doveroso passo indietro. Il dialogo platonico, che noi stiamo cercando di aggiornare, e dopo il quale la parola simposio assume il significato che conosciamo per un potere di estensione a tutti gli argomenti che divengono oggetto di un dibattito, si lega alla dimensione stessa del dialogo come scambio anziché come disputa filosofica, quali quelle a cui Socrate ci ha quasi sempre abituati; al ruolo particolare quindi che i partecipanti assumono rispetto al tema stesso.

Dell'amore si parla ovvero in una situazione amicale, conviviale, mangiando, bevendo, passando una serata tra amici, tra amanti. E' da questo modello aristocratico di scambio e di confronto che trae origine l'uso del termine simposio, che significa appunto aggregazione conviviale, riunione simpatetica; e da allora qualsiasi dibattito culturale e scientifico ( non quello politico , e infatti vi sarà un motivo) viene chiamato simposio. E qui la prima ambiguità: solo alcuni modi e alcuni temi, ma non tutti, sono ragione di scambio, anziché di dialettica.
Parlando dell'amore ci troviamo insomma a riporre le armi, ci vestiamo delle nostre migliori maniere e siamo disposti ad affrontare un discorso che sappiamo in anticipo sarà certamente disomogeneo, quindi non dialettico.

Per discorso non omogeneo intendo dire che se ad esempio parlassimo di logica, o di fisica, o letteratura russa, dovremmo prevedere che le nostre riflessioni si strutturino su premesse omogenee, o quantomeno su alcune omogeneità. La filosofia, a partire da Platone è esattamente questo; se parliamo di una cosa, fosse anche il corpo di un uomo, siamo in grado di farlo perché quel corpo non é più il mio corpo o il tuo corpo, ma è semplicemente il corpo, ovvero un organo, o un complesso di organi. Se io vado dal medico perché il mio corpo soffre, io non porto me stesso al sapere scientifico perché se ne occupi, bensì porto il (mio) corpo, che essendo uguale (in virtù di un'idea del corpo) a quelli che il medico ha studiato sui libri, e già conosce avendo verificato nell'esperienza quanto ha appreso sui libri, sarà in grado di capire perché il mio corpo soffre e cosa potrebbe fare per guarirlo. Ma si tratta in ogni caso di un corpo che è omogeneo a tutti gli altri corpi, nei cui confronti un dato sapere può elaborare una diagnosi.

Nel caso dell'amore sappiamo in partenza che non possiamo portare un corpo comune, poiché ciascuno di noi possiede esperienze che rendono la percezione dell'amore qualcosa di assolutamente unico, perché cioè lo scambio che si è prodotto tra il linguaggio che abbiamo in comune e il nostro personale coinvolgimento affettivo non assomiglia affatto né ai libri sui quali il medico ha studiato, né ai corpi che è solito visitare, ma è stato simile a quello tra due individui, ovvero si sono sovrapposti il piano affettivo con quello cognitivo, e di conseguenza si andranno a sovrapporre anche quello morale con quello etico e così via. Ciascuno di noi magari condivide un linguaggio, una mitologia, una lettura, un'esperienza; ma dagli esiti ogni volta diversi, e che riguardano aspetti privati della nostra percezione di quel sapere, e quindi possiamo dare per scontato che le nostre saranno soltanto opinioni, doxa appunto, e li proporremo come punti di vista assolutamente disomogenei.

Un dialogo sull'amore a mio parere deve allora partire da questa consapevolezza e senza la pretesa di voler approdare a una sintesi. In quanto il dialogo sull'amore è esattamente il Dialogo, lo scambio; potremmo forse azzardare che l'amore stesso è proprio esclusivamente lo scambio. In virtù del fatto che conosciamo la distanza che ci separa possiamo tentare di accorciarla, ma difficilmente sovrapporla. Poiché lo scambio comporta una simmetria, una dare e un ricevere, un prendere e un restituire. E che questo è il Bene e il Bello di cui parla Platone, e a cui giungere alla fine della navigazione a vista che ci aspetta. E probabilmente per questa ragione che i personaggi del dialogo platonico parlano quasi sempre attraverso un linguaggio simbolico, affine al mito anziché alla logica.

Sono davvero innumerevoli gli spunti che scaturiscono dalla spiegazione offerta da Platone per parlare del Bene, e del Bello. Poiché a mio modesto parere riguardano una visione non economica dell'esistenza, della quale l'amore si fa strumento di conseguimento. Qualsiasi discorso sull'etica, sulla bellezza come bene collettivo, sul bene come patrimonio condivisibile e sul quale edificare l'arte o la politica, penso che passi attraverso una visione non economica dell'esistenza, un superamento del concetto di utilità.
Al tempo stesso il percorso filosofico che conduce al Bene di cui parla Socrate mi pare che si collochi tra i percorsi che può compiere solo l'individuo, attraverso lo scambio, ma come singolarità. E in questo senso che mi premeva evocare subito la contraddizione a cui il tema dell'amore ci sottoporrà: se siamo veramente in grado di parlarne ricercando dei valori che ci accomunino, anche se viviamo al di fuori di una dimensione mitologica, anche se viviamo orfani dei dogmi sui quali la nostra società continua a fondarsi e a rigenerarsi. E, ciò non di meno, non cessiamo di domandarci se saremo mai capaci di immaginare la nostra libertà al servizio di un bene comune.
La nostra, momentanea, aristocratica, libertà di poterne parlare mi sembra per ora il più doveroso dei privilegi.

Massimo Kaufmann

     
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I believe that the individuation of such a topic as love and its receptiveness in being a symposium subject put a series of hardly resoluble questions. The ambiguity of this topic resides in the identification of a meaning which could be shared or couldn't be shared. The way in which it could be set, almost like a sign with no articulation or determination, it seems to me, as the first point to solve. Since we are going to penetrate into a topic like love, we will have to be fully aware that we will enter and exit a thousand times the same labyrinth, and from a thousand several doors.

So let's take a proper step backward. The Platonic dialogue, which we are trying to update, and after which the word symposium assumes the meaning that we know as for a power of extension to all the other topics that become a subject of a debate, connects itself to the dimension of dialogue as an exchange rather than a philosophical dispute.
It's connected to the special role that the attending people assume with regards to the topic itself.

We talk about love in a friendly, convivial situation, eating, drinking, passing a night with friends, with your lover. It is from this aristocratic pattern of exchange and comparison that use of the word symposium comes from, and it means convivial aggregation, a "sympathetic" union. And after that any cultural or scientific debate (not the politic one, and there will be a reason) is called symposium.

And here is the first ambiguity: only some modes and topics, but not all of them, are reasons for an exchange, rather than dialectic.

Talking about love we have to put away our weapons, we dress up with our best manners and we are willing to face a conversation which we know in advance that will surely be not homogeneous, thus not dialectic.
As a not homogeneous conversation I mean to say that if, in example, we would talk about logic, or physics, or Russian literature, we should foresee that our reflections are structured on homogeneous introductions, or least on some homogeneity. Philosophy, starting from Plato, is exactly this; if we talk about something, would it be a man's body, we are able to do it because that body is no more my body or your body, but is simply the body, or an organ, or a complex of organs. If I go to see a doctor because my body suffers, I don't bring myself to scientific knowledge in order that it attends to my body, but I bring (my) body, which, being similar (by virtue of a body's image) to others that the doctor have studied on books. And he already knows this body, having verify during experience what he has learned on books, so he will be able to understand why my body suffers and what he could do to heal it. But we are talking, anyway, about a body which is homogeneous to the other bodies, for which a stated knowledge can elaborate a diagnosis.
Talking about love we know from the start that we can't bring a common body, because each of us owns experiences that make the love's perception as something absolutely unique, this is the exchange that we have produced between our common language and our personal emotional involving. This exchange doesn't resemble at all the books on which the doctor have studied, nor the bodies which he usually visits, but it's a state similar to the one between two individuals, or the emotional level has been placed upon the knowledge level, and consequently the moral level will be placed upon the ethic one, and so on. Each of us maybe shares a language, a mythology, a reading, an experience. But they have always various results, which concern private aspects of our perception of that knowledge, so we can take for granted that our opinions will just be opinions, "doxa", and we will propose them as absolutely not homogeneous point of views.

A conversation on love, in my opinion, has to start from this awareness, without any pretension of wanting to reach a synthesis. In that the dialogue on love is exactly the Dialogue, the exchange; we maybe could venture that love itself is the exchange. By virtue of the fact that we know the distance that separates us, we can try to short it, but hardly put it upon one another. For exchange needs symmetry, giving and getting something, taking and giving back something. And that is the Goodness and Beauty of which Plato talks, that we have to add to end of the navigation at sight that we have to expect.
It is likely for this reason that the characters of the Platonic dialogue talk nearly always with a symbolic language, akin to myth rather than to logic.

There are really numberless cues that result from the Plato's explanation to talk about the Goodness, and Beauty.
Because, in my unpretentious opinion, they concern a non-economic vision of existence, of which love is an attainment instrument. Any discussion on ethics, on beauty as a common property, on good as a shared property and on which we can build up arts or politics, I think it passes through a non-economic vision of existence, an overcoming of the meaning of usefulness.
At the same time, the philosophical route that leads to the Goodness of which Socrates talks about, it seems to be placed among the routes that can only be achieved by individuals, through an exchange, but as singularity. It's in this sense that I wanted to recall the contradiction that the love topic will bring to us: if we really can talk about it searching for values that join us, even if we live outside of a mythological dimension, even if we live as orphans of the dogmas on which our society keeps being founded and keep regenerating.
And , nevertheless, we don't stop asking ourselves if we will ever be able to imagine our own freedom in order to a common good. Our momentary aristocratic freedom to talk about it seems for the moment the best privilege.

Massimo Kaufmann