Anita
Sieff: Forme di celebrazione
Due donne stagliate su uno sfondo di antiche rovine. Parlano. Le ombre disegnate
dal sole indolente le seguono sulla pavimentazione romana. La conversazione è frammentata
e avvitata insistentemente attorno al senso di perdita. Il tempo è splendido.
Non c’è gente in giro nemmeno vestita di toghe, o occupata ad
adempiere ai rituali di una repubblica ormai perduta visto che non c’è impero
da difendere. Ci sono giusto queste due donne con le loro voci musicali,
di età indecifrabile, che parlano appassionatamente di qualcosa che è andato
perduto.
Questo è il modo in cui Anita Sieff inizia il suo film “On Public” e
come lei annuncia ciò che diventerà un progetto più ampio
e sistematico di corti.
Queste serie di film lamentano la perdita di una certa nozione di comunità,
ma aprono anche la porta per una sua possibile reinvenzione, come se il lutto
possa a volte diventare la forma più efficace di celebrazione. Ma
torniamo a “On Public” perché questo è il soggetto
di un dialogo scintillante tra le due donne.
Una di queste chiede: “Perché lo hai fatto finire?” L’altra
risponde: “Perché era finito” La sua risposta nega ma
le sue parole e la sua espressione non sono di negazione ma di gioia. In
questo film come in molti lavori di Sieff l’oggetto della conversazione
sembra infinitamente astratto. Per il pubblico “on public” potrebbe
significare la dimensione pubblica delle relazioni interpersonali, la res
publica oppure il fondamento della sfera pubblica come definito ai nostri
tempi. Quando una delle donne lamenta la “perdita” di Public
lei sembra intendere che qualsiasi dimensione di solidarietà pubblica – la
reale possibilità di una comunità – sia già persa.
La risposta di Monica Samassa (un’attrice presente in molti film recenti
di Sieff) sono giocose e nello stesso tempo cariche di una sobrietà classica.
Per lei non ci può più essere Public perlomeno non più nel
senso tradizionale. Solamente dopo la presa di coscienza di ciò può emergere
la possibilità di un’altra dimensione del sentire, lontana da
queste rovine.
“Public” è innanzitutto, ma non esclusivamente,
il titolo di un progetto che Anita Sieff ha organizzato partendo dal ’96
fino al 2001 particolamente in collaborazione con la Peggy Guggenheim di
Venezia. È consistito in una serie di incontri e discussioni tra un
cast di caratteri sempre diversi, che – incontrandosi attorno alla
nozione di incontro – è riuscito ad inventare una forma aperta
di scambio che potrebbe essere in sé stessa un modello potenziale
di comunità. Venezia che emerge in maniera determinante nei film di
Sieff è la più piccola delle effettive città cosmopolite.
Nello stesso tempo è una città in cui le dinamiche del turismo
di massa e la progressiva trasformazione dello spazio urbano in servizi,
escludono ogni forma di scambio al di fuori di questa nuova economia di gente
e consumi. Attraverso “Public” Sieff cerca di stabilire nuovi
rituali sociali in una città che irrimediabilmente se ne è separata.
Fin dai suoi primi film “Missed 1”, ’93; “Missed
2”, ’94; e “People never change”, ’95, Sieff
ha registrato ed esplorato le interazioni tra persone – gente che non è mai
sola o isolata ma che si trova sempre in contesti urbani. Nonostante ad un
primo sguardo il contesto urbano dei suoi film, spesso Venezia e New York,
sembrano essere solo delle quinte, presto Sieff rivela come questi scenari
pesano su quelle stesse relazioni umane. “Missed” 1 e 2 sono
film altamente allegorici relativamente al desiderio , e ci ricordano le “Affinità elettive” di
Goethe (pubblicato nel 1809) in cui un numero di personaggi entra in relazione
con risultati imprevedibili. Come Goethe, Sieff ci presenta personaggi che
vengono in contatto come pianeti che gravitano l’uno verso l’altro,
attratti o respinti secondo la loro continuamente mutevole posizione in un
universo urbano che minaccia di manipolarli. Il silenzio che si sprigiona
da questi due film ci permette di notare gli attori come fossero semplicamente
dei corpi (Sieff impiega sempre sia attori professionisti che non). La cinepresa
evidenzia questo in quanto li accarezza e fa trasparire il calore che la
città emana attorno a loro, come un telo di seta nei toni del bianco
e nero. Questi primi film sono girati usando una cinepresa 16 mm, la loro
qualità cinematografica – sostituita dalla qualità più basica
e meno rifinita del video nei lavori che seguono – evoca un’atmosfera
di sogno perfettamente adatta ad un racconto allegorico.
I racconti di “Missed” 1
e 2 esaminano la vita di 2/3 persone che imparano e disimparano il modo in
cui il desiderio risponde al proprio sguardo e al proprio corpo in relazione
a loro stessi e alla città. Sieff sembra dirci che un film è una
costellazione temporale dello sguardo e dell’attesa.
In “People never change” Sieff inspessisce il plot costruendolo
come un collage di segmenti disparati che fanno parodia a quelli che sono
il Film cosidetti famosi e ai formati televisivi, come i “film noir”, “music
clips” e “soap opera” . Il senso generale di perdita comunque
prevale, ma ora gli attori parlano realizzando un rituale ripetuto eternamente:
si attraggono, seducono, si respingono. Il video è perfettamente costruito
per riflettere e ricreare questa situazione equivoca, una situazione definita
da separazione, ed in fondo caratterizzata da frustrazione. Mentre la natura
inerente e il linguaggio dei film rappresentano il desiderio e le relazioni
personali, per Sieff il video come mostrato nel suo lavoro, esclude la possibilità della
dimensione pubblica.
Dopo “People never change” è ovvio che Sieff abbia pensato
di abbandonare il film e di inventare piuttosto una metodologia che le permettesse
di realizzare e registrare rituali spontanei nella vita reale. “Public” sembra
le abbia permesso di fare esattamente questo.
Il ritorno di Sieff al film, dopo la lunga interruzione effettivamente frustrante
del progetto veneziano, potrebbe certamente essere letto in retrospettiva
come inevitabile. Un processo all’interno di quella struttura di desiderio
e perdita che è stato così implacabilmente definito nei suoi
primi film.
Nel frattempo si potrebbe anche dire che la perdita personale è diventata
perdita collettiva – che l’apparente “fallimento” della
espansiva e penetrante ambizione del progetto dell’artista sembra prorompere
precisamnente nel dialogo tra queste due elegiache perse nelle rovine della
Villa Adriana vicino a Roma. Sieff non si prende mai troppo sul serio e per
rappresentare questo momento di perdita e profondo riconoscimento simultaneamente
fa parodia e onora la convenzione della tragedia classica. Le sue donne – non
i suoi uomini – sono eroiche in quanto si confronatano con la perdita
e nello stesso tempo rinascono, allontanandosi dalle rovine senza negarle,
in un modo veramente nietschiano.
Il modo di essere diventerà il punto
di partenza del lavoro più recente
di Sieff della serie “Fashion Weather Forecast”, di cui il primo
e l’ultimo episodio sono presentati nel programma corrente al Museo.
Inizialmente concepito come un “pilota” per una serie televisiva, “Fashion
Weather Forecast” 2006 rende lampante in maniera paradossale il disrispetto
per il convenzionale linguaggio televisivo. “Fashion Weather Forecast” è non
lineare, logorroico, giocoso, grazioso, umoristico e autocosciente. Questa
volta Monica Samassa, che è di nuovo l’eroina e che qui sembra
continuamente stressata dalla indecisione su cosa indossare, dalla complessità della
sua vita amorosa e dalla imprevedibiltà del tempo atmosferico, si
impone come un personaggio amabile e memorabile, come se uscisse da una novella
di Jane Austen riscritta da Samuel Beckett. I due episodi di “Fashion
Weather Forecast” sono esilaranti, in un modo veramente filosofico.
Anche quando dovrà confrontarsi con la fine del mondo, nel secondo
episodio, Monica non sembra rinunciare al suo ottimismo e alla sua voglia
di vivere. Questa serie ha permesso a Sieff di giustapporre il linguaggio
di film e video, usando l’uno per riflettere l’altro, facendoci
inevitabilmete ricordare la serie del cineasta Jean-Luc Godard. Ma la prospettiva
di Anita Sieff è sempre ancorata nella parodia e rappresentata dal
modo di vedere il mondo di Monica, una donna attraente nella sua mezza età,
per la quale i vestiti stanno significando la possibilità di infinita
metamorfosi.
L’immagine conclusiva nel secondo episodio potrebbe essere
presa come la perfetta conclusione allegorica di questa serie: Monica perfettamente
svestita e nello stesso tempo autoreferenziale ed espansiva, gioca, immersa
in uno splendore al di là delle convenzionali nozioni di bellezza
emanando calore perpetuo.
Carlos Basualdo, Curatore del Contemporaneo.