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About Anita Sieff


Anita Sieff: Forms of Celebration
by Carlos Basualdo

Anita Sieff: Forme di celebrazione
di Carlos Basualdo


The Art work as a place for relation
by Chiara Bertola

The 21st Century Odalisque
by Diane Lewis

Scultura sociale
di Maria Paola Sutto

Anita Sieff
di Carlo Montanaro

La sperimentazione artistica in Guggenheim Public
di Sandra Caroldi

Anita Sieff
by Patricia A. Simpson
Anita Sieff: Forme di celebrazione
Due donne stagliate su uno sfondo di antiche rovine. Parlano. Le ombre disegnate dal sole indolente le seguono sulla pavimentazione romana. La conversazione è frammentata e avvitata insistentemente attorno al senso di perdita. Il tempo è splendido. Non c’è gente in giro nemmeno vestita di toghe, o occupata ad adempiere ai rituali di una repubblica ormai perduta visto che non c’è impero da difendere. Ci sono giusto queste due donne con le loro voci musicali, di età indecifrabile, che parlano appassionatamente di qualcosa che è andato perduto.
Questo è il modo in cui Anita Sieff inizia il suo film “On Public” e come lei annuncia ciò che diventerà un progetto più ampio e sistematico di corti.
Queste serie di film lamentano la perdita di una certa nozione di comunità, ma aprono anche la porta per una sua possibile reinvenzione, come se il lutto possa a volte diventare la forma più efficace di celebrazione. Ma torniamo a “On Public” perché questo è il soggetto di un dialogo scintillante tra le due donne.

Una di queste chiede: “Perché lo hai fatto finire?” L’altra risponde: “Perché era finito” La sua risposta nega ma le sue parole e la sua espressione non sono di negazione ma di gioia. In questo film come in molti lavori di Sieff l’oggetto della conversazione sembra infinitamente astratto. Per il pubblico “on public” potrebbe significare la dimensione pubblica delle relazioni interpersonali, la res publica oppure il fondamento della sfera pubblica come definito ai nostri tempi. Quando una delle donne lamenta la “perdita” di Public lei sembra intendere che qualsiasi dimensione di solidarietà pubblica – la reale possibilità di una comunità – sia già persa. La risposta di Monica Samassa (un’attrice presente in molti film recenti di Sieff) sono giocose e nello stesso tempo cariche di una sobrietà classica. Per lei non ci può più essere Public perlomeno non più nel senso tradizionale. Solamente dopo la presa di coscienza di ciò può emergere la possibilità di un’altra dimensione del sentire, lontana da queste rovine.

“Public” è innanzitutto, ma non esclusivamente, il titolo di un progetto che Anita Sieff ha organizzato partendo dal ’96 fino al 2001 particolamente in collaborazione con la Peggy Guggenheim di Venezia. È consistito in una serie di incontri e discussioni tra un cast di caratteri sempre diversi, che – incontrandosi attorno alla nozione di incontro – è riuscito ad inventare una forma aperta di scambio che potrebbe essere in sé stessa un modello potenziale di comunità. Venezia che emerge in maniera determinante nei film di Sieff è la più piccola delle effettive città cosmopolite. Nello stesso tempo è una città in cui le dinamiche del turismo di massa e la progressiva trasformazione dello spazio urbano in servizi, escludono ogni forma di scambio al di fuori di questa nuova economia di gente e consumi. Attraverso “Public” Sieff cerca di stabilire nuovi rituali sociali in una città che irrimediabilmente se ne è separata.

Fin dai suoi primi film “Missed 1”, ’93; “Missed 2”, ’94; e “People never change”, ’95, Sieff ha registrato ed esplorato le interazioni tra persone – gente che non è mai sola o isolata ma che si trova sempre in contesti urbani. Nonostante ad un primo sguardo il contesto urbano dei suoi film, spesso Venezia e New York, sembrano essere solo delle quinte, presto Sieff rivela come questi scenari pesano su quelle stesse relazioni umane. “Missed” 1 e 2 sono film altamente allegorici relativamente al desiderio , e ci ricordano le “Affinità elettive” di Goethe (pubblicato nel 1809) in cui un numero di personaggi entra in relazione con risultati imprevedibili. Come Goethe, Sieff ci presenta personaggi che vengono in contatto come pianeti che gravitano l’uno verso l’altro, attratti o respinti secondo la loro continuamente mutevole posizione in un universo urbano che minaccia di manipolarli. Il silenzio che si sprigiona da questi due film ci permette di notare gli attori come fossero semplicamente dei corpi (Sieff impiega sempre sia attori professionisti che non). La cinepresa evidenzia questo in quanto li accarezza e fa trasparire il calore che la città emana attorno a loro, come un telo di seta nei toni del bianco e nero. Questi primi film sono girati usando una cinepresa 16 mm, la loro qualità cinematografica – sostituita dalla qualità più basica e meno rifinita del video nei lavori che seguono – evoca un’atmosfera di sogno perfettamente adatta ad un racconto allegorico.

I racconti di “Missed” 1 e 2 esaminano la vita di 2/3 persone che imparano e disimparano il modo in cui il desiderio risponde al proprio sguardo e al proprio corpo in relazione a loro stessi e alla città. Sieff sembra dirci che un film è una costellazione temporale dello sguardo e dell’attesa.
In “People never change” Sieff inspessisce il plot costruendolo come un collage di segmenti disparati che fanno parodia a quelli che sono il Film cosidetti famosi e ai formati televisivi, come i “film noir”, “music clips” e “soap opera” . Il senso generale di perdita comunque prevale, ma ora gli attori parlano realizzando un rituale ripetuto eternamente: si attraggono, seducono, si respingono. Il video è perfettamente costruito per riflettere e ricreare questa situazione equivoca, una situazione definita da separazione, ed in fondo caratterizzata da frustrazione. Mentre la natura inerente e il linguaggio dei film rappresentano il desiderio e le relazioni personali, per Sieff il video come mostrato nel suo lavoro, esclude la possibilità della dimensione pubblica.

Dopo “People never change” è ovvio che Sieff abbia pensato di abbandonare il film e di inventare piuttosto una metodologia che le permettesse di realizzare e registrare rituali spontanei nella vita reale. “Public” sembra le abbia permesso di fare esattamente questo.
Il ritorno di Sieff al film, dopo la lunga interruzione effettivamente frustrante del progetto veneziano, potrebbe certamente essere letto in retrospettiva come inevitabile. Un processo all’interno di quella struttura di desiderio e perdita che è stato così implacabilmente definito nei suoi primi film.

Nel frattempo si potrebbe anche dire che la perdita personale è diventata perdita collettiva – che l’apparente “fallimento” della espansiva e penetrante ambizione del progetto dell’artista sembra prorompere precisamnente nel dialogo tra queste due elegiache perse nelle rovine della Villa Adriana vicino a Roma. Sieff non si prende mai troppo sul serio e per rappresentare questo momento di perdita e profondo riconoscimento simultaneamente fa parodia e onora la convenzione della tragedia classica. Le sue donne – non i suoi uomini – sono eroiche in quanto si confronatano con la perdita e nello stesso tempo rinascono, allontanandosi dalle rovine senza negarle, in un modo veramente nietschiano.

Il modo di essere diventerà il punto di partenza del lavoro più recente di Sieff della serie “Fashion Weather Forecast”, di cui il primo e l’ultimo episodio sono presentati nel programma corrente al Museo. Inizialmente concepito come un “pilota” per una serie televisiva, “Fashion Weather Forecast” 2006 rende lampante in maniera paradossale il disrispetto per il convenzionale linguaggio televisivo. “Fashion Weather Forecast” è non lineare, logorroico, giocoso, grazioso, umoristico e autocosciente. Questa volta Monica Samassa, che è di nuovo l’eroina e che qui sembra continuamente stressata dalla indecisione su cosa indossare, dalla complessità della sua vita amorosa e dalla imprevedibiltà del tempo atmosferico, si impone come un personaggio amabile e memorabile, come se uscisse da una novella di Jane Austen riscritta da Samuel Beckett. I due episodi di “Fashion Weather Forecast” sono esilaranti, in un modo veramente filosofico. Anche quando dovrà confrontarsi con la fine del mondo, nel secondo episodio, Monica non sembra rinunciare al suo ottimismo e alla sua voglia di vivere. Questa serie ha permesso a Sieff di giustapporre il linguaggio di film e video, usando l’uno per riflettere l’altro, facendoci inevitabilmete ricordare la serie del cineasta Jean-Luc Godard. Ma la prospettiva di Anita Sieff è sempre ancorata nella parodia e rappresentata dal modo di vedere il mondo di Monica, una donna attraente nella sua mezza età, per la quale i vestiti stanno significando la possibilità di infinita metamorfosi.

L’immagine conclusiva nel secondo episodio potrebbe essere presa come la perfetta conclusione allegorica di questa serie: Monica perfettamente svestita e nello stesso tempo autoreferenziale ed espansiva, gioca, immersa in uno splendore al di là delle convenzionali nozioni di bellezza emanando calore perpetuo.

Carlos Basualdo, Curatore del Contemporaneo.